America, Louisiana: Slaughter (Mattatoio in italiano ndr.):
Un bimbo di otto anni impugna la pistola lasciata incustodita dal padre e spara alla nuca della nonna 90enne che guardava la TV uccidendola, il tutto dopo avere appena finito di giocare a Grand Theft Auto.
Questo è solo l’ultimo di una lunga serie di casi di cronaca a cui tutte le agenzie di stampa ed i mass media si sono aggrappate per creare fantasiosi articoli relativi all’infame connubio tra videogiochi e violenza.
Anche la nostra “RaiNews24” non si è lasciata scappare l’occasione per fare la notizia spacca cervello ed ha subito additato l’amaro accaduto come mera colpa dei videogiochi corredando la news con una bella foto di Doom (giusto per non sbagliare); non sia mai che la colpa possa andare ai genitori per una mancata osservanza delle norme di sicurezza relative al non far giocare il figlio con un gioco sulla cui copertina è indicato che non sia adatto ai minori di 17 anni o che so, magari la colpa possa essere del padre che lascia la pistola in giro per casa, incustodita, permettendo al figlio di potervi tranquillamente mettere su le mani.
NO!, in questi casi la colpa è sempre dei videogiochi e della violenza che ci propinano giorno dopo giorno; se il bambino avesse fatto lo stesso con una mitragliatrice leggera la colpa sarebbe stata di Rambo se avesse usato della dinamite saremmo qui a processare Wile E. Coyote e l’ ACME….
Purtroppo è accaduto con GTA ed i videogiochi e la loro violenza presumibilmente influenzante le giovani menti degli appassionati video ludici torna a tenere banco.
Noi, ed anche voi, sappiamo che non può esserci nessuna naturale correlazione tra il mondo videoludico e quella reale, nonostante presunti studi ne abbiano dimostrato un fittizio legame e nonostante le quantomeno discutibili dichiarazioni dello sceriffo locale:
Sebbene il reale motivo della sparatoria sia ancora sconosciuto e oggetto di indagini, si è scoperto che pochi minuti prima dell’omicidio il giovane sospetto stava giocando sulla PlayStation 3 e Grand Theft Auto 4, un titolo realistico ritenuto responsabile di incoraggirare la violenza e che fornisce riconoscimenti a chi uccide altre persone.
Sicuramente noi relativamente a questa vicenda ci rispecchiamo di più in quanto è stato invece dichiarato dal publisher Take-Two in un comunicato pubblicato sul sito della CNN:
“Attribuire una connessione tra quanto accaduto e l’intrattenimento videoludico rappresenta una teoria smentita più volte da numerosi studi e ricerche indipendenti. Serve a minimizzare il problema in questo momento e spostare l’attenzione dalle cause reali.”
Noi che ci nutriamo di pane e videogiochi tuttavia ci sentiamo di dire che additare i videogiochi come causa principale e o esclusiva della violenza giovanile è ovviamente errato (visto e considerato soprattutto la realtà mediatica da cui siamo giornalmente accerchiati), non si capisce quindi come la gente possa mettere in correlazione il giocare a GTA con lo sparare ed uccidere alla nonna, l’uno non può essere ne causa ne giustificazione dell’altro.
Se cosi fosse, se davvero i videogiochi potessero influenzare il nostro comportamento in simile maniera, avete presente quanta gente interessante troveremmo per le strade???
Io ho speso l’infanzia a giocare a Crash Bandicoot, ma non per questo vado in giro in pantaloncini di jeans a fracassare casse e mangiare mele, cosi come chi prima di me ha speso anni a giocare a Sonic può tranquillamente farsi il bagno senza aver paura di dissolversi in anelli dorati;
essere un asso a FIFA non ti fa vincere i palloni d’oro cosi come avere tutti i trofei di Gran Turismo non può renderti un pilota da corsa (per quello esiste la GT Academy!).
Cosi, giusto per portare qualche esempio…Quindi per quale arcano motivo irrazionale giocare nelle vesti di un soldato o di un criminale dovrebbero renderci tali?
Ad onore di cronaca è anche opportuno ammettere che la violenza nei videogiochi oggi è presente spesso e volentieri, a volte anche senza un reale motivo valido ed il videogiocatore si è beatamente abituato ad essa, come se la stessa sia componente essenziale del videogioco di successo.
C’è da dire che la violenza è presente da sempre nel mondo dei videogiochi, ma sicuramente il miglioramento tecnologico e il sempre più costante e crescente avvicinamento alla realtà ne hanno amplificato l’impatto con il videogiocatore, enfatizzando tuttavia solamente l’aspetto violento dell’atto e non le conseguenze umane (già dai tempi degli storici Medal of Honor che raccontavano le guerre mondiali nell’episodio dello sbarco in Normandia veniva dai programmatori enfatizzata solamente la componente patriottistica dello sbarco, senza un minimo accenno a quella umana, alla morte dei compagni che ci camminavano a fianco ricordandoci che erano fatti realmente accaduti, la morte veniva data come un dato di fatto necessario, un evento scontato per il progredire della storia).
A riguardo di ciò vi segnalo un gioco che recentemente ha fatto parte dell’offerta mensile del PsPlus, Spec Ops: The Line; un titolo che, seppur incentrato sul concetto di guerra, la narra in un modo diverso dal solito, sottoponendo all’attenzione del giocatore anche la componente umana del soldato.
A tale proposito vi propongo la presentazione fatta da Walt Williams, Lead Writer di Spec Ops: The Line, alla GDC 2013 dal titolo:
“Non siamo eroi: contestualizzare la violenza attraverso la narrativa”
”Sembra che io, adesso, voglia mettermi a criticare la violenza nei videogiochi, ma quello che voglio dire è che non credo affatto che i giochi violenti rendano le persone violente, e non credo neppure che i giochi violenti ci desensibilizzino alla violenza. Credo, piuttosto, che i giochi violenti ci desensibilizzino alla violenza nei giochi”
“Siamo un’industria piena di persone molto intelligenti e ben informate. Sta diventando sempre più difficile, per noi, giocare a questi titoli e guardarli in maniera critica, dicendo: ok, questo ha senso. In particolare, quando diventiamo più anziani. Vorrei vedere giochi meno violenti. Non perché sono brutti o sbagliati, ma perché ritengo che da un punto di vista creativo siano troppo facili. Penso che abbiamo bisogno di arrivare a un punto da cui tornare indietro, per cercare di scrivere storie e personaggi che abbiano un po’ più di speranza. Penso che questo potrebbe essere già un buon inizio.”
L’idea espressa da Williams è assai condivisibile: ad ogni gioco è associata un’azione specifica, quell’azione caratterizza il gioco.
Il platform, ad esempio, è un gioco definito dall’azione del saltare.
”Quando l’azione diventa uno strumento, è facile dissociarsi da quella stessa azione.
Quando si gioca uno sparatutto, l’azione consiste nell’uccidere una persona. E in uno sparatutto, si uccidono centinaia, se non migliaia, di persone….
Il rischio – prosegue Williams – è quello della dissociazione, se non dell’indifferenza.
Gli sviluppatori, in buona sostanza, hanno fatto della morte un fatto banale, una normale routine ludica da compiere a sangue freddo e ad libitum, un elemento ormai privo di pathos.
Insomma, siamo desensibilizzati alla violenza nei videogiochi (e non dei videogiochi).”
Ha poi ripreso il discorso parlando dell’uccisione dei civili all’interno di un videogioco:
Williams portando l’esempio del suo Spec Ops: The Line ha parlato del suo tentativo (attraverso la narrazione, ovviamente) di caricare d’importanza l’uccisione di civili (una vera e propria strage…), mostrando in qualche modo ai giocatori che la violenza non si traduce sempre e necessariamente in un “atto sicuro” attraverso lo stato di disgusto, ansia ed irrequietezza dei soldati successivamente all’accaduto (la componente umana di cui parlavamo sopra).
Per Williams una delle chiavi di lettura fondamentali è quella che apre le porte della cosiddetta “illusione di causalità“: non bisogna giustificare l’uso della violenza dall’inizio del gioco sino alla sua fine, ma “abbracciare la tensione tra ciò che il giocatore vuole fare e quello che gli scrittori hanno congegnato a monte per la storia.”
“Dobbiamo smettere di pensare al gioco come alla differenza tra ciò che il giocatore sta facendo e quello che abbiamo scritto.
Il giocatore può fare solo ciò che le meccaniche di base gli permettono di fare. E il vostro personaggio principale non potrà mai essere più (moralmente) giusto dei meccanismi propri del gioco.”
Come a dire che, nel caso di uno sparatutto, il protagonista non potrà mai essere uno stinco di santo, come di fatto non lo è Walker, protagonista di Spec Ops: The Line, visto che anche lui si trova a dover uccidere parecchia gente per riempire altrettante ore di gioco, ma nel corso del gioco verrete messi di fronte ai dubbi di un soldato, alle sue insicurezze, alle conseguenze dei suoi errori; una componente umana sicuramente più unica che rara in uno sparatutto e che rende questo titolo sicuramente un gioco che ci sentiamo di consigliare a voi che state leggendo.
“All’inizio del gioco, è facile dare un senso alla morte. Ma come il gioco prosegue, diventa sempre più strano assistere a così tante uccisioni…”.
In realtà, Williams nel suo gioco è riuscito a creare personaggi in grado di razionalizzare con le proprie azioni, capaci di spiegarle a se stessi, per se stessi, i soldati in Spec Ops uccidono perché sono soldati, ma nel corso del gioco incominciano a razionalizzare i propri atti, a porsi delle domande sulla violenza….
“Non sapranno darsi delle risposte – ha aggiunto Williams – ma va bene cosi … l’ipocrisia è una caratteristica umana, e l’incapacità di un personaggio di giustificare se stesso è un buon dramma.”
La violenza non dovrebbe mai essere giustificata dalle circostanze ludiche, ma razionalizzata dai personaggi.
A margine, le scelte del giocatore, dovrebbero riflettere il gameplay.
La correlazione tra videogiochi e violenza è sempre stata nel corso degli anni tema di accese discussioni da parte di tutto il mondo, soprattutto di quello non videoludico.
La scienza si è più volte applicata per capire come e se sessioni di gioco davanti a videogiochi violenti e/o di guerra potesse influenzare il comportamento del videogiocatore, ovviamente con test e risultati opinabili.
Riportiamo a tale proposito lo studio effettuato dai ricercatori dell’università del Missouri relativamente alla maggiore (o presunta tale) aggressività del videogiocatore medio, rispetto ad altri esseri umani della stessa età. I ricercatori semplicemente affermano che chi spende molto tempo a giocare con giochi comeKillzone, COD, GTA o Hitman (giusto per dirne qualcuno) tende a considerare la violenza come socialmente accettate, ad impressionarsi di meno e ad abbassare la sua soglia di sensibilità.
“Molti ricercatori hanno creduto in passato che diventare insensibili alla violenza portasse ad un aumento dell’aggressività umana. Fino al nostro studio, tuttavia, questo nesso causale non era mai stato dimostrato sperimentalmente” ha dichiarato Bruce Bartholow, professore associato presso il Missouri College of Arts and Science.
Lo studio portato avanti ha visto 70 giovani scelti in maniera casuale giocare per 25 minuti di fila ad un videogioco scelto in maniera casuale da una lista che includeva giochi violenti e non violenti.
Terminati i 25 minuti i ricercatori hanno misurato le risposte cerebrali dei partecipanti alla vista di foto neutre e violente e poi permesso ad ognuna delle “cavie” di poter far sentire un rumore molto forte, uno scoppio, ad un altro soggetto, valutando come l’intensità del rumore fosse chiaro indice della loro aggressività.
Bene, i risultati hanno dimostrato come i soggetti che nei 25 minuti di test erano stati impegnati a giocare a titoli come COD o Killzone avessero fatto sentire ad altri soggetti rumori decisamente più forti di chi non aveva giocato a giochi presunti violenti ed, inoltre, lo studio ha dimostrato come i soggetti che avessero già giocato a videogiochi violenti prima dello studio avessero manifestato una ridotta risposta cerebrale alle foto violente rispetto agli altri soggetti.
“Il fatto che l’esposizione al videogioco non abbia influenzato l’attività cerebrale dei partecipanti che già erano stati esposti a giochi violenti è interessante e suggerisce una serie di possibilità.
Potrebbe essere che questi soggetti siano già così insensibili alla violenza, utilizzando abitualmente videogiochi violenti, che una maggiore esposizione in laboratorio ha uno scarso effetto sulle loro risposte cerebrali. Ci potrebbe anche essere un fattore non misurato che provoca sia una preferenza per i videogiochi violenti che una risposta del cervello limitata alla violenza. In ogni caso, non ci sono ulteriori misure da considerare. ”
Bartholow ha detto che in futuro si dovrebbe ridurre l’impatto violento dei media sulla popolazione, a maggior ragione su bambini che, secondo una stima recente, spendono circa 40 ore a settimana davanti ai videogiochi, più di ogni altra attività oltre al dormire.
“Più di qualsiasi altro mezzo, questi videogiochi incoraggiano la partecipazione attiva alla violenza (…) Da un punto di vista psicologico, i videogiochi sono strumenti didattici eccellenti perché premiano i giocatori se si impegnano in un certo tipo di comportamento. Sfortunatamente, in molti video giochi popolari, il comportamento è violento”.
All’Università di Aachen in Germania, un gruppo di ricerca ha evidenziato che «l’esposizione a videogiochi violenti produce la stessa attività cerebrale provocata da un evento pericoloso e potenzialmente aggressivo».
Praticamente, sottoponendo il cervello a risonanza magnetica durante le sedute ludiche è emerso che – esattamente come se il videogiocatore si trovasse dinanzi ad un pericolo reale – «sia l’amigdala che la corteccia anteriore si spengono in ogni occasione di violenza digitale». Quindi il cervello preparerebbe (neurochimicamente parlando) il corpo a reagire con aggressività alla minaccia incombente, anche se in questo caso la minaccia è assolutamente virtuale!
I giochi violenti alterano lo stato emotivo, provocando sovreccitazione, inibendo l’autocontrollo riducendo la capacità di concentrazione e le capacità razionali e relazionali come riportato dal Journal of Experimental Social Psycolology:
«chi utilizza videogiochi ‘violenti’ e ‘cruenti’, sarebbe predisposto ad una tendenziale ‘desensibilizzazione’ nei confronti della violenza reale».
Risultato: chi gioca con i videogiochi violenti rischia di diventare meno sensibile alla violenza reale, e addirittura più violento e “cattivo” nella gestione delle relazioni interpersonali.
Stando ai risultati riportati qui sopra parrebbe naturale la correlazione tra violenza e videogame, ma noi sappiamo che non è cosi, buona parte della responsabilità va allo stile di vita che facciamo, alle società in cui viviamo e agli attacchi mediatici giornalieri dei media.
Il punto fondamentale della questione sta nella diversa concezione del mondo videoludico di chi lo vive, rispetto a chi lo osserva e studia (o pensa di poterlo fare) da fuori.
Al giorno d’oggi nel nostro paese il videogiocatore medio ha circa 28 anni, non avrà vissuto l’universo dei videogiochi fin dagli albori della sua nascita, ma di giochi, console e vicende ad essi legate ne avrà viste e vissute tante. Negli ultimi anni, soprattutto grazie a console come la Wii, strumenti come il Kinect e dispositivi come iPad ed iPhone l’industria video ludica ci ha sempre più “accerchiato”, richiamando l’attenzione anche di chi fino a quel momento non ne era mai stato attratto come donne, anziani e famiglie nel loro generico senso.
Chissà quante madri ci sono che qualche hanno fa vi dicevano di non stare troppo attaccati alla Playstation/Xbox o al vostro PC e adesso passano ore se non serate intere incollate a Facebook a sperimentare ogni singolo gioco fruibile sul social network … non è forse ipocrisia questa?
Grazie a questo avvicinamento i toni relativi ai danni da videogiochi si sono un po’ smorzati, nonostante gente ignorante ne ritorni a parlare criticando a vele spiegate come accaduto nel caso descritto ad inizio articolo.
Dal 2003 in Europa, proprio a limitare le polemiche relative alla violenza presente in alcuni titoli è stato istituito un sistema di classificazione dei videogiochi basato sui contenuti in esso presenti, il PEGI (Pan European Game Information). Tale sistema, il cui logo è riportato in basso a sinistra sulla copertina di ogni singolo titolo, ha lo scopo di indicare in maniera immediata per quale fascia di età sia adatto un specifico titolo. Il punto focale del discorso è però che, nonostante il grande parlare che si fa della violenza nei videogiochi e di come essa vada moderata ed impedita la sua visione ai minori, almeno per quel che riguarda l’Italia solamente il 5% del totale dei giochi immessi sul mercato è indicato come PEGI 18+. Poi ovviamente tra l’imporre delle limitazioni (qualora esse possano davvero considerarsi tali) all’uso di un determinato titolo e la loro osservanza ne passa; e purtroppo viviamo in una società moderna in cui la stragrande maggioranza dei minorenni crescono sempre più in un ambiente “self-made” (sotto tutti gli aspetti) e di conseguenza la classificazione PEGI 18+ risulta solo un logo, nemmeno troppo figo, sulla copertina del nuovo GTA o COD di turno.
Voi che ne pensate? Credete davvero che una esperienza video ludica, anche se di altissima qualità ma pur sempre fittizia, possa alterare il vostro o altrui comportamento nella vita reale?
Credete che ci sia effettivamente bisogno di guidare ed indirizzare le nuove generazioni attraverso questo universo che tanto amiamo ed apprezziamo?