L’educazione ai videogiochi non esiste. Quasi un mese fa usciva una notizia terribile, di quelle che nessuno, appassionato di videogames o non, vorrebbe mai leggere: Jacopo Bacis, figlio di un ex calciatore, cadeva dal balcone della sua abitazione, morendo sul colpo, mentre giocava a un videogioco su un tablet.
Ho scelto di tacere, quando l’ho letta. Non per indifferenza, sia chiaro, il motivo del mio silenzio fa riferimento al fatto che dietro quella tragedia c’era tanto altro di cui parlare, ma non ero pronto. Nessuno lo era, come sicuramente non lo sono ancora i genitori del piccolo Jacopo. Un bambino che muore colpisce, non vi presento queste righe con l’intenzione di negarlo, ma oggi, a distanza di un mese vorrei parlare di un aspetto che non bisogna assolutamente trascurare. Da quando ho letto la notizia ho cercato di immedesimarmi nei genitori, ho quasi sentito addosso lo strazio, il dolore e l’impotenza che avranno provato davanti all’accaduto. Mi sono posto un milione di domande e, non nascondo, mi sono anche arrabbiato. Muore un ragazzino cadendo dalla finestra mentre gioca a un videogioco:
Come è stato possibile che avvenisse? Come sarebbe stato possibile evitarlo?
L’assenza del genitore durante la crescita e lo sviluppo del proprio figlio è un tema ardente e vasto. Mi piacerebbe selezionare il discorso e parlare del nostro medium preferito, perché qui, oltre all’assenza genitoriale, manca un metodo.
Se si tenta di approfondire la questione attraverso i motori di ricerca si trova davvero poco per quanto riguarda la questione educazione ai videogiochi. Qualche risultato buono c’è (videogame education – Psicologia dei videogiochi nel volerne citare solo due) ma la pecca è quella di avere sempre un atteggiamento di rimprovero, senza permettere di cogliere il senso reale della questione al lettore, oppure un’attenzione molto ristretta. Il problema più grande è che alle volte si pecca di avere un atteggiamento fin troppo accademico, proponendo spunti molto interessanti ma dal potere comunicativo limitato, indirizzando il messaggio a grandi appassionati o, addirittura, agli addetto ai lavori (o aspiranti tali). Quasi nessuno di rivolge in modo diretto a chi deve affrontare la questione videogiochi in termini di educazione: nessuno parla a un padre o a una madre che si trovano a dover educare il proprio figlio/a a questo profondo e complesso mondo. La cosa sconvolgente è che si trova molto materiale in stile “how to” su come gestire un figlio dipendente dai videogiochi ( le guide sono più pratiche e dettagliate di quanto possiate immaginare, ve lo assicuro).
Cose scritte, insomma, da chi guarda a questo mondo con l’intento di aggredire e sgridare, o anche giudicare e attaccare. Le persone dimostrano sempre un’incredibile prontezza a puntare il dito contro il medium “cattivo” di turno e, se ci riflettiamo, lo fanno da sempre: il cinema, la tv e i videogiochi.Fa tutto male. Tutto devia il cervello. Tutto ci rende peggiori.
Non è davvero più tollerabile questo atteggiamento vent’anni dopo il secondo millennio. Poteva essere quasi sensato nei primi anni novanta, quando chi oggi sta sui trenta muoveva i primi passi importanti nel mondo videoludico, sperimentando un’evoluzione del settore e un livello di coinvolgimento molto più elevato rispetto a chi ci giocava dieci anni prima. Per comodità, la scelta ricade sempre sull’intervento asincrono, remoto, a danno fatto. Lamentarsi dell’effetto di una dipendenza risulta molto meno impegnativo e più efficace rispetto ad intervenire in corso d’opera per fare, o cercare di fare, la differenza. Il Gaming Disorder esiste e non è una questione da risolvere negandola o esasperandola. Bisogna prevenire.
Si tratta di arte, che piaccia o meno
Il videogioco è un bene culturale, una forma d’arte, e non mi stancherò mai di ripeterlo. Ma anche in questo caso, come la prima volta che vedi un quadro di Caravaggio (o un film di Fellini), non hai idea di cosa hai davanti gli occhi. Come per il cinema e per la pittura, serve un’educazione ai videogiochi. Sono pienamente cosciente dell’azzardo che sto proponendo, come so che in queste ultime tre righe alcuni di voi inorridiranno e chiuderanno l’articolo, ma le cose stanno esattamente così. Il videogioco comunica in modo profondo e complesso, indossando una maschera ben realizzata che è in grado di catturare l’attenzione di grandi e piccini. Dà input più coinvolgenti ma questo non lo rende un prodotto sottile e, oggi più che mai, è necessario mettere alla portata di tutti la conoscenza di questo medium per arrivare a fornire degli strumenti che nel pratico possano migliorare la situazione.
Per continuare a scomodare Caravaggio, quando a scuola ci hanno spiegato come comprendere la sua arte, siamo rimasti a bocca aperta, abbiamo provato quel senso di disorientamento tipico di chi si rende conto che quello che ha davanti è solo la superficie. I nostri occhi comunicavano al cervello un’informazione incredibilmente limitata ma grazie alla guida del professore siamo stati in grado di capire, non per essere convinti, piuttosto per essere formati. Per avere degli strumenti. Poi per carità, Caravaggio poteva anche non piacere, alla fine della storia, ma chi di dovere ci ha dato la possibilità di comprenderlo realmente. Questo non accade con il videogioco.
Perché non c’è educazione ai videogiochi?
ATTENZIONE: non sto alludendo a un insegnamento inserito necessariamente nell’ambiente scolastico – per quanto la cosa sarebbe meravigliosa – ma di fornire gli strumenti agli utenti più giovani (e ai loro genitori) per comprendere a pieno il prodotto dai diversi punti di analisi possibili. Occorre un linguaggio più semplice, comprensibile da un ragazzino ma comunque completo ed esaustivo, miscelato ad una massiccia dose di empatia. Comprendere cosa c’è all’interno di questa arte che attrae così tanto e aiutare i nostri figli a gestire le cose nel modo corretto.
Se esistesse una reale educazione ai videogiochi molti ragazzini non avrebbero subito le conseguenze di un gioco irresponsabile ( Jacopo in questa sede, ma vi assicuro che non è l’unico). Come è noto azzerare il rischio è impossibile ma qui siamo ancora, purtroppo, molto lontani da percentuali accettabili. Molti players non più bambini hanno dovuto estrapolare in modo autonomi un minimo di disciplina per quanto concerne le sessioni di gaming. Sono molte le sfumature a cui mi sto riferendo e in seguito ne trovate esposte alcune. Quello che è importante sottolineare è che stiamo parlando di persone più fortunate di altre, è inutile girarci intorno. Si pensi ad esempio alle console portatili: chi oggi non è più un “giovanissimo” le ha vissute in un periodo della propria vita dove poteva contare su una coscienza diversa.
Data la natura della discussione che è stata affrontata in queste righe e, come vi ho anticipato poco fa, bisognerebbe promuovere delle regole di buona condotta che si propongano di dare in minimo di forma alle sessioni di gioco dei più piccoli, favorendo la nascita di una vera e propria educazione al videogioco. Gli aspetti da tenere in considerazione sono davvero tanti e vanno da quelli più pratici (pensate alla durata media di una sessione di gioco, ma anche all’ergonomia) a quelli più teorici, che viaggiano su canali prettamente psicologici e cognitivi (pensate ai messaggi intrinsechi nella comunicazione dei videogiochi, allo spiegare i temi trattati ai più piccoli etc.). Vi propongo di seguito degli spunti di riflessione emersi durante una discussione con altri colleghi del settore e appassionati di videogiochi non più bambini:
1) L’utente bambino dovrebbe sapere che oltre le due ore di gaming ( dato caratterizzato da un’importante grado di soggettività), sopraggiungono alcuni segnali che è bene tener presente, tra i quali: fastidi da difetti posturali, possibile fastidio agli occhi, difficoltà a tenere l’attenzione. Vediamola così: stiamo giocando da tre ore a un FPS, iniziamo a mancare il bersaglio continuamente, la prestazione diminuisce. Un utente esperto capisce che sta giocando da troppo tempo e sa che da questo momento in poi continuare a giocare lo renderà solo più nervoso e che fare una pausa rappresenta la soluzione al problema. Come possiamo farlo comprendere a un bambino? Come si può formulare una frase che arrivi ai più piccoli senza farli sentire accusati o sminuiti? Ce lo siamo immaginato così:
“Senti piccolo, ci hai fatto caso che dopo un po’ che giochi non riesci più ad essere bravo come quando hai iniziato? È normale, sei solo un po’ stanco. Se fai delle pause riesci sempre ad essere bravo”. Ora, questo era l’esempio più banale che si potesse fare. Sicuramente non è una comunicazione limpida, tuttavia si pone l’attenzione sulla bravura. I più piccoli si avvicinano maggiormente a giochi competitivi (pensate a fortnite), quindi risulta efficace fare un discorso basato sull’abilità stimolando comunque una pratica sana, ovvero quella di fare una pausa durante le sessioni;
2) L’utente giovanissimo dovrebbe sapere che mentre si gioca non si deve fare altro, soprattutto in un’epoca in cui la portabilità delle piattaforme è sempre più in auge. Capita a tutti, durante una sessione di gioco mobile o con console portatili, di correre dei rischi. Questi vanno dai più banali, come ad esempio urtare un qualsiasi oggetto presente nella stanza con conseguenze relativamente poco gravi, allo sporgersi eccessivamente dalla finestra.
Riuscire a gestire questi rischi risulta complesso e avere la presunzione di esserne immuni un azzardo. Non si tratta di essere adulti o bambini, si tratta di avere degli strumenti di riferimento che si basino sul concetto di ergonomia, applicando quest’ultima al contesto portable gaming (e facendo quindi le dovute modifiche) con l’intento in primis di tutelare la salute dell’utente. Norme semplici, magari già note a chi lavora con il PC, che possono letteralmente salvarti la vita;
3) I videogiochi sono strumenti ottimi per sviluppare determinate abilità (problem solving, focus selettivo e durata dell’attenzione tra le più intuitive), ma come ogni pratica di apprendimento, se protratta eccessivamente, cessa di apportate benefici. È così per lo sport, è così per lo studio e per la lettura ed è così per i videogiochi. Per quanto bellissimo, leggere cinque ore di fila stressa la vista e la mente, apporta più danno che beneficio. Tuttavia di fronte a chi legge per cinque ore la reazione comune è quello di definire tale persona “acculturata”, mentre una sessione di un intero pomeriggio dedicata ai videogiochi sfocia, spesso, in “alienazione“.
Sono molte le ricerche dedicate al nesso videogioco-apprendimento, non basterebbe una giornata per citarle tutte. Bisogna chiaramente fare una distinzione da titolo a titolo, tuttavia i risultati degli studi effettuati vertono su una conclusione unanime: il gaming è in grado, grazie alla tipica immersività che lo caratterizza, di favorire lo sviluppo di determinate skills e di agevolare, quando le tematiche trattate lo consentono, l’apprendimento di concetti che sono argomento di studio nei tradizionali percorsi scolastici. Quindi abbandoniamo tutto e ci mettiamo a giocare? Ovviamente no. Questi studio hanno, sostanzialmente due scopi: il primo è quello di esplorare le dimensioni che un videogioco può avere se posto in relazione all’apprendimento, il secondo di far comprendere a pieno gli elementi presenti all’interno di questi prodotti e come questi possono apportare importanti benefici nella nostra vita. Pensiamo, ad esempio, al “Learning by Gaming“.
Spiegare questi concetti a un ragazzo cambierebbe molto la sua percezione del medium, favorendone la piena comprensione ed un utilizzo più coscienzioso, diminuendo al contempo il rischio di abuso. Crescendo ognuno di noi fa delle scelte e le proprie passioni vengono inserite in una scala di priorità che è altamente soggettiva. Molti di quelli che non sono più ragazzini e che giocano assiduamente ai videogiochi hanno fatto una scelta. Quello che però è molto probabile, come anticipato in precedenza, è che non abbiano ricevuto una vera e propria educazione ai videogiochi ma che abbiano dovuto ricavare in autonomia una sorta di codice personale per far funzionare bene le cose.
Questo non andava bene nemmeno quando si era poche centinaia di migliaia di tizi a giocare, oggi non può e non deve essere possibile l’esistenza di tale lacuna.
Perché Jacopo non deve essere visto come uno strumento per attaccare i videogiochi ma come un monito: serve disciplina. Oggi impari, domani acquisisci e in futuro farai le tue scelte modulandole su uno schema di regole che serviranno, quanto meno, a mettere in pratica un “play safe“.