Il settore videoludico non conosce crisi. Uscendo sempre a testa alta laddove altri settori commerciali più blasonati si sono dovuti inginocchiare all’impeto inarrestabile di una incertezza mondiale in termini monetari, il gaming e i suoi derivati ha dimostrato quanto fosse forte e solida la base di cui è composta. Si rinuncia un po’ a tutto, insomma, ma non toccate l’home entertainment, sempre florido di contenuti e sempre presente nel free-time casalingo. Le aziende interessate lo sanno, e come. Puntare sui servizi, sui contenuti multimediali garantendo profitti costanti da reinvestire a loro volta in macchine genera soldi.
Recentemente la nota azienda Sony ha annunciato un aumento dell’abbonamento al servizio PS Plus, manovra che abbraccia tutti i tagli interessati, dal mensile all’annuale. Un popolo in rivolta, quello della community, anche se non manca chi, dietro a delle politiche aziendali ben definite, ingerisce quasi rassegnato una pillola rivestita d’oro, ma dal sapore amaro. Ma qual è quella linea di confine che consente realmente di scegliere cosa volere e cosa pagare? Quell’essere padroni di se stessi e di decidere ciò che si vuole?
Come tutti ben sappiamo, tale servizio offerto da Sony si compone di diversi vantaggi e l’abbonamento, cosi come quello di altre aziende interessate nel settore, ha riscontrato un discreto successo, aumentando di anno in anno, anche se in forma lieve, il numero degli iscritti all’interno di un ecosistema dove il giocatore è sempre più esigente.
Sull’onda del successo le aziende sfruttano quanto più possibile la risposta positiva del pubblico, ma questo non basta. Sì, il servizio funziona, ma si può fare di più. Bisogna accaparrarsi maggiori clienti, maggiori numeri, maggiori profitti. La svolta avviene alcuni anni or sono, quando tale abbonamento diventa obbligatorio per i giochi multiplayer: chiunque volesse avvalersi dei servizi online offerti dai giochi è obbligato ad abbonarsi. E vai ancora di rivolta comunitaria. Per quanto questa scelta abbia fatto discutere, nel suo assurdo è forse l’unica che è stata messa veramente nelle mani del giocatore. In mezzi termini, si capisce. Se lo sviluppo delle attività multiplayer ha avuto sempre più campo in questi anni, garantendo anche una certa longevità e competitività del titolo interessato, è chiaro agli occhi di tutti che associare tale feature ad un abbonamento ha garantito un aumento del numero degli iscritti.
Certe strategie di marketing, purtroppo, hanno invaso anche noi. Anche la nostra casta, che si è sempre sentita una razza da tutelare. A fronte anche di congrui esborsi il giocatore esige rispetto. Rispetto dei propri investimenti, della fiducia che esso ripone nel progetto finanziato, pretendendo che chi vive dall’altra parte della barricata ascolti la sua voce, le sue idee e accolga a braccia aperte ciò che dice, critiche annesse. Il responso delle aziende in questo senso è, in linea di massima, positivo. Ma se in una mano si cela la carota, nell’altra quasi sicuramente si nasconde il bastone.
Questo recente aumento di prezzo dimostra soprattutto, a mio avviso, di quanto l’autoconvinzione sia un elemento presente nella nostra categoria e di quanto le aziende facciano pressione su di essa per giustificare certe scelte. Tramite i più diffusi social media è possibile farsi un’idea di quello che sta accadendo: discorsi sul convincersi che i fondi in più possano servire a garantire server migliori, (fallati diverse volte), rumor su una possibile aggiunta di altri servizi (PS Now), fino ad arrivare all’inevitabile aumento dovuto a un costo della vita sempre maggiore, dimostrano che tanti stanno già preparando il bicchiere pieno d’acqua, pronti ad ingerire la pillola. Eppure cosa abbiamo scelto realmente se non solo ed esclusivamente di abbonarci o meno. Nulla. Non posso fare a meno di citare il recente servizio offerto da Microsoft, Game Pass, che propone un vasto catalogo di giochi in aggiunta a quelli offerti mensilmente al costo di pochi euro. E’ qui che decido se avvalermi o meno ci certe funzioni, di decidere cosa sì e cosa no, di dare la giusta importanza alle mie scelte, per quanto esse possano essere rilevanti in un contesto economico in continua competizione.
Certe politiche aziendali, queste sconosciute, non hanno orecchie.